Johannes Volket, Arthur Schopenhauer - Seine Persönlichkeit, seine Lehre, sein Glaube. (Frommans Klassiker der Philosophie, X), 2.te Aufl, Stuttgart, Frommans Verlag, 1901.
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È forse il miglior libro fra quanti ne sono stati scritti fin qui sul demoniaco pensatore di Danzíca. Demoniaco, dico: perché ben pochi offrono tanta mescolanza di elementi terreni e divini. C'è in lui l'orrore dell'abisso e il sorriso ineffabile delle stelle, c'è l'urlo selvaggio della bestia trionfante e il presentimento di una pace che forse non è stata mai nell'esperienza umana.
Questi caratteri antitetici sono messi assai bene in rilievo dal Volket. L'esposizione del pensiero schopenhaueriano mi sembra inappuntabile. Non saprei dire lo stesso delle osservazioni critiche che l'accompnano, in ispecial modo di quelle che si riferiscono alle fondamentali vedute gnoseologiche del nostro filosofo. L'autore ripete presso a poco ciò che egli aveva già detto nella sua «Immanuel Kants Erkenntnisstheorie» (Leipzig, 1879) e in «Erfahrung und Denken» (Hamburg u. Leipzig, 1886). Egli distingue tra forma e contenuto della rappresentazione, e crede di sottrarsi alla necessità dell'idealismo, dicendo che l'immanenza nel soggetto si richiede soltanto per la prima non per il secondo. Non intendo in che possa consistere questo contenuto che si potrebbe pensare esistente anche fuori del soggetto. Nei colori, forse, nei suoni, nei sapori?
Oh! no, certo. Dunque, i colori ecc., rientrano nell'aspetto formale della rappresentazione? Peggio che mai. Ma basti questo fuggevole accenno: il lettore non cercherà, certo, in questo libro la filosofia del Volket, dal momento che egli ci trova quella dello Schopenhauer. Non neghiamo, d'altra parte, che molte delle critiche che l'autore fa, colgan veramente nel segno. Ma non è ciò che costituisce il merito e l'importanza di questo libro. Il suo merito stà nell'aiutarci a sentire, sotto la veste di teorie più o meno bene architettate, l'intima vita di un genio che fu ad un tempo dell'ombra e della luce, che seppe unire in sè stesso (che importa se al punto di vista della piccola ragione, del tirannello «Sete vont Grunde,» essi restano inconciliabili?) Helvetius e Platone, Voltaire e Meister Eckhart.
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